venerdì 25 novembre 2011

I 100 MIGLIORI ALBUM DEL NUOVO MILLENNIO - n. 1: SIX DEGREES OF INNER TURBULENCE, Dream Theater

I 100 MIGLIORI ALBUM DEL NUOVO MILLENNIO - n. 1
SIX DEGREES OF INNER TURBULENCE, Dream Theater
Il più grande album del ventunesimo secolo, finora, è Six degrees of inner turbulence (d’ora in poi Six…) dei Dream Theater.
Per chi volesse conoscere le tematiche puramente verbali, può consultare le pagine esaurienti i wikipedia a riguardo, anche se una più approfondita analisi linguistica associata alla musica porterebbe forse alla specificazione di alcuni temi. Ciò che interessa però qui è l’astrazione timbrica e materiale della grande opera, che si presenta come raccolta di 6 piéce musicali differenti tra loro, atte ognuna a completare un livello musicale comunicativo diverso, e quindi collegate tra di loro proprio per il loro intento di completezza programmatica. La sequenza dei brani quindi pare non obbligatoria, per quanto, data la lunghezza della piéce Six…, il supporto materiale del cd obbliga a scindere in due dischi, uno con 5 canzoni di lunghezza media per il progressive, e la sessione di 42 minuti dall’altra parte. Quasi due album quindi: uno strettamente collegato al suo interno e l’altro apparentemente no; ed ecco che l’ipotesi iniziale comincia a vacillare, perché nell’intento di usare le possibilità compositive, rientra anche la distinzione tra concept e non-concept, con la possibilità per quest’ultimo di essere “canzoniere” o “raccolta”. Spiego meglio: “canzoniere” è una serie di microtesti che non hanno per forza una certa sequenza, ma che in quella sequenza data dall’autore, hanno uno dei significati possibili ricostruibili attraverso le varie sequenze, come in Petrarca, o come nella maggior parte degli album rock di buona fattura; “raccolta” è solo una cernita, se vogliamo, casuale, come nei greatest hits, come in molti album jazz anche di buon fattura, in cui non ha alcun valore quella sequenza scelta se non un generico accostamento di tempi diversi. E forse ora si sarà intuito di che capolavoro stiamo parlando, perché già solo nella sistemazione della musica i Dream Theater qui sfruttano tutte le possibilità finora concepite nella popular music (e forse nella musica in generale): l’interezza dell’album è una raccolta, divisa per ragioni materiali in due parti, di cui la prima è canzoniere e la seconda concept album.
L’operazione di completezza viene anche estesa quindi alla concezione musicale, in una realizzazione che non ha nulla di didascalico, anzi fonda sulla trovata musicale e sul virtuosismo tecnico la realizzazione pratica. The glass prison comincia l’album, e parte dal metal e dal progressive, immediatamente riconoscibili per suoni (per il metal campane a morte, forti distorsioni, addirittura il growl) e struttura (prima che parta il testo si passa attraverso varie parti strumentali diverse), fino a creare un riff fenomenale nella commistione tra i due generi, perché presenta forza e orecchiabilità metal, ma una nota almeno è molto prog, e soprattutto l’iterazione per tre volte prima di concludere lo scansa sa quell’orecchiabillità. Insomma se qualcuno volesse chiedere che cos’è il prog-metal potrebbe indicare The glass prison senza problemi. Da loro stessi partono quindi i Dream Theater, dandosi un marchio che non perderanno all’interno della raccolta, ma soprattutto non perderanno all’interno del canzoniere. Andando veloce sulle altre: quanta grazia jazz si riscontra in quella specie di bridge che ha Misunderstood!, canzone che sembra sempre affannata nelle prosecuzione di altre parti, come è affannosa la comprensione, e come è affannoso e incomprensibile per un ascoltatore la commistione di jazz e prog. E quanto bipolari sono Blind faith e Disappear nel loro contrastarsi tra rock e lento, comunque vicine a una noia morettiana (il poeta, non il regista)! Mentre la lussuosa The great debate si dilunga come canzone impegnata, quasi d’autore, ma che fa trasparire l’atra faccia dell’impegno che è lo sperimentalismo sonoro in assoli francamente fastidiosi per il suono, come se il dibattito sulle cellule staminali di cui parla la canzone fosse solo una scusa per dibattere, e infatti non se ne giunge a una soluzione, mentre il vero dibattito è tra avanguardia e nazional-popolare, tra canzone di protesta e sperimentalismo.
Poi dall’altra parte c’è l’opera: il secondo disco è una vera e propria suite di musica colta, con tanto di Overture e Gran Finale, con sviluppi e riprese musicali, calcoli matematici perfetti, oppio dei musicologi, orgasmo delle orecchie. Questo è il momento più alto della musica nel nostro secolo, e lo rimarrà per sempre del primo decennio di esso. Impossibile privilegiare un momento piuttosto che un altro: dopo l’overture in cui vengono preannunciati tutti i temi musicali in una sintesi spettacolare che farà capire al secondo ascolto di come siano compatte quelle varie parti così apparentemente diverse, About to crash ci fa partire subito, War nside my head ci coccola di paranoie e ci fa sfogare The test that stumped them all, mentre poi ci inteneriamo con Goodnight kiss, Solitary shell ci illude di speranza condita con solitudine cronica, speranza che About to crash (reprise) continua ad alimentare, mentre Losing time / Grand Finale non ci risolve niente verbalmente, come vuole opera aperta, ma mette un punto musicalmente, come vuole opera chiusa.
Per la spiegazione dei vari gradi di follia di cui parlano i testi rimando appunto a wikipedia o meglio ai testi stessi, e dopo quest’operazione potrete confrontare di nuovo la resa semiotica delle musiche, e troverete ogni cosa al suo posto, come in Goodnight kiss, dove la tenerezza viene continuamente contrastata dall’angoscia della realtà, sia nelle parti cantate, che nel formidabile assolo, probabilmente il migliore d Petrucci.

Spero siano state esaurienti le motivazioni delle mie scelte, anche se ciò che dovrebbe più convincere è l’ascolto incondizionato dell’album. Sui primi tre mi sono dilungato perché la profondità e l’innovazione che hanno portato questi artisti nei primi anni di questo millennio sono importanti e soprattutto godibili. Ripeto che fino alla posizione n. 24 sono tutti potenziali numeri uno se si studiano a fondo, mentre i successivi non hanno la stoffa del podio. Oltre alle vecchie guardie si sono trovate nuove leve che quindi possono entrare nella storia della musica, non solo popular music: i System Of A Down e i Dream Theater si contendono il posto per il miglior gruppo del decennio passato, e io propendo per i primi; lungi da me il nazionalismo, ma grazie a Max Manfredi ed Elio E Le Storie Tese l’Italia può vantare grandi artisti nella popularmusic, come non accadeva dalla fine ’60 inizio ’70, quando progressive e canzone d’autore erano il nostro vanto, e ora la storia si ripete anche se evoluta in componenti francamente imprevedibili; Nick Cave forse non si può proprio etichettare come novità, quindi Laura Marling è sicuramente la scoperta cantautoriale anglofona, mentre Beck è una scoperta che non si chiude in un solo genere musicale; Lionel Loueke è la svolta africana del jazz; i Dirty Projectors sono i nuovi sperimentatori; e per finire, nel rock mainstream i Franz Ferdinand e i Queens Of The Stone Age sono le più fresche novità.

E spero vi sia piaciuto. A presto.

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