lunedì 6 settembre 2010

La parolaccia

Nessuna pubblicità al famoso Cencio di Roma, più che altro una riflessione nata qualche giorno dopo aver assistito allo spettacolo di Walter e i suoi cugini del 1961 (fantastica parodia di Rocco e i suoi fratelli uscito nelle sale l’anno precedente), film in cui Walter Chiari interpreta un pugliese stabilitosi a Milano al quale salgono a far visita due cugini incredibilmente simili al primo. L’interpretazione di Chiari è ottima in tutti e tre i ruoli, ma non è per parlarvi dello straordinario attore pugliese che siamo qui. Nel film ha una particina Walter Isnenghi; interpreta il regista Anselmonti, personaggio immaginario quanto irresistibile. Beh, questi fa un uso smodato del turpiloquio.
Mi sono chiesto: ma io ne dico troppe, di parolacce? Probabilmente sì, ed è da qui che sono partito. Come sono entrate le parolacce nel mio e, più in generale, nel nostro vocabolario?
Per prima cosa, parolaccia non vuol dire altro che brutta parola; quindi sempre di parola trattasi. Quindi di linguaggio. Inoltre, in letteratura, già dall’Epopea di Gilgamesh trovano luogo le cosiddette parolacce (leggetevi lo sclero di Enkidu contro la prostituta Shamkat), passando è ovvio dal Sommo Poeta (ed elli avea del cul fatto trombetta – Inferno, Canto XXI, vv. 139) che in più punti dell’Inferno usa termini come merda e puttana, senza voler citare il romanesco del Belli (altro piccolo consiglio letterario). Se è vero che la nostra lingua viene dalla letteratura, risulta allora corretto lo mio utilizzo delle parole, brutte o belle esse siano. Pare che l’italiano annoveri circa 3.500 termini osceni e/o insulti nel suo vasto vocabolario. Il 50% di essi è di origine sessuale…
Secondo gli psicologi, dire parolacce fa stare meglio, nel senso stretto di sopportazione del dolore. Volendo esagerare, del Dolore per eccellenza. Non ho competenze in merito, e non so se abbracciare questa teoria: ciò che so come scrittore è che la parolaccia è lingua comune del mondo che vedo, e che quindi riporto nei miei testi. Come persona, quanno ce vò ce vò!
Concludo con qualche curiosità:
Fili de le pute, traite! è la prima parolaccia d’Italia, o almeno la prima di cui si abbia diretta testimonianza. É nella Chiesa di S. Clemente a Roma (!), databile 1084. Nella Basilica ci sono le più antiche espressioni murali in volgare: una di queste rappresenta il patrizio Sisinnio che ordina ai suoi servi di trascinare San Clemente, trasmutato in pietra. «Tirate, figli di puttana!» è lo sprono del patrizio. Il poemetto Ibis di Ovidio è, ad oggi, la più lunga imprecazione della nostra letteratura. 4038 parole contro un anonimo romano. Riportarlo qui è troppo lungo.
L’assolo in carrellata di 2’15’’ del premio Oscar Roberto Benigni, contenuto nel film del 1977 di Giuseppe Bertolucci Berlinguer ti voglio bene, rappresenta invece lo stesso record nel campo del cinema. (http://www.youtube.com/watch?v=CeiR6Q2Yonk)
Il primo film che termina con una parolaccia è Il buono, il brutto, il cattivo, capolavoro di Sergio Leone del 1966. Tuco, il brutto (interpretato da Ely Wallach) grida «Ehi biondo, lo sai di chi sei figlio tu? Di una grandissima puttana!» (http://www.youtube.com/watch?v=DVim--9dryw)
Il cartone animato più volgare della storia è South Park (1999 – Trey Parker e Matt Stone). 399 parolacce in soli 80’.
Finisco in bellezza: di autore incerto (forse il frate Giovanni dei Marignoli), nel capitolo ventinovesimo dei Fioretti di San Francesco c’è la prima parolaccia attribuita ad un santo.
«ma quando il demonio ti dicesse più: Tu se' dannato, sì gli rispondi: Apri la bocca; mo' vi ti caco»

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